venerdì 24 aprile 2015

Sefu

Tutti avevano sempre pensato che io fossi forte, imponente e determinato. E in effetti la mia stazza è questo che raccontava di me.
Avevo diciassette anni, e avevo molti amici: persone che contavano su di me, sul mio appoggio, sulla mia protezione.
Ed ero felice: erano passati gli anni in cui ero stato evitato, allontanato per paura e pregiudizi.
Non ero mai stato un ragazzo tanto socievole e facevo fatica a farmi accettare dagli altri. I ragazzini della mia età avevano timore di me perché ero alto e abbastanza grosso. Avevo sempre l’aria imbronciata e parlavo poco.
Non capivano che forse era timidezza, la mia. E che io avevo più paura di loro di quanta ne avessero loro di me.
Sapevo cosa volevano dire, quindi, la solitudine, l’isolamento, le prese in giro, gli sguardi sprezzanti. Ero convissuto con quelle cose per molto tempo.

Ora che ero arrivato ai diciassette anni, ero riuscito a farmi più coraggioso, più determinato. Pian piano le persone che mi circondavano avevano imparato a conoscermi e si erano ricredute.
Ora avevo degli amici, finalmente potevo contare su qualcuno.
Ma questo non mi impedì di provare come una forte stilettata allo stomaco nel vedere quella scena: una scena che racchiudeva una violenza ed una irrazionalità inaudita.
Era mattina e mi stavo dirigendo a scuola, lo zaino in spalla. Ero in ritardo, come al solito, e nel cortile non c’era molta gente.
Solo, in un angolo vicino al cancello, un gruppo di persone. Avevo strizzato gli occhi per vedere meglio, avvicinandomi alla scena. Cinque o sei ragazzini erano chini su una figura diversa, più minuta.
Misi meglio a fuoco, ormai ero a pochi passi da loro.
I ragazzi potevano avere quindici o sedici anni, mentre il ragazzino che tenevano sotto torchio circa tredici. Era di colore.
Provai anche una strana stretta allo stomaco a quella vista, e deglutii, un sapore amaro in bocca. Il ragazzino aveva un occhio gonfio e un labbro spaccato da cui usciva un rivolo di sangue fresco.
Sentii in me montare la rabbia. Cosa aveva potuto fare di male quel ragazzino per meritarsi di essere picchiato così selvaggiamente?
Piangeva, ma senza emettere un lamento: le lacrime scorrevano silenziose sul suo viso.
-Hai capito chi comanda qui?- stava dicendo uno dei ragazzi più grandi.
-Uno schifoso negro come te, deve sottostare ai nostri ordini, capito? Sennò ne avrai ancora- disse un altro, tirando i capelli al piccoletto.
Ne ebbi abbastanza. Rivedevo in quegli occhi pieni di paura i miei, nell’isolamento del ragazzino i miei anni di solitudine. Nella sua “diversità”, riconoscevo un po’ la mia.
Solo che io, tra i due, ero il più fortunato.
-E’ per questo che lo avete picchiato?- chiesi, alzando la voce.
I ragazzi si voltarono a guardarmi, sorpresi: non si erano accorti della mia presenza.
-Perché è di colore?- continuai.
Uno di loro rise. Un altro mi rispose.
-Non lo vedi com’è? Non vale niente.-
Mi avvicinai, i pugni serrati.
Sarebbe stato ingiusto picchiare quei ragazzini presuntuosi e arroganti, vero? Ma non potevo lasciare il bambino nelle loro mani.
-Siete voi che valete meno di niente- sputai tra i denti, quasi ringhiando.
I ragazzi parvero inquietarsi. Anche se erano in tanti, io li sovrastavo tutti.
Ma erano dei vigliacchi. Capaci solo a prendersela con i più deboli e non a vedersela con qualcuno alla pari.
-Lasciatelo stare- dissi, semplicemente.
Il ragazzino alzò gli occhioni e mi fissò, incredulo: aveva un ché di speranzoso e dolce nello sguardo.
Poi, timidamente, accennò un sorriso.
Fu allora che capii di aver fatto la cosa giusta. Lo sapevo fin dall’inizio, ma quel sorriso mi fece capire tante cose. Quel ragazzino, nonostante tutto attorno a lui fosse un marciume, aveva ancora la forza di sorridere.
“La diversità, la diversità. Dov’è la diversità? Ha un sorriso che è migliore del mio!” pensai, sentendo un senso di protezione nei confronti del ragazzino crescere in me.
I ragazzi idioti alla fine se ne andarono. Sembravano pensierosi e tristi. Come se non ricordassero effettivamente perché si fossero accaniti così nei confronti del ragazzino e si sentissero degli stupidi.
Forse, adesso avrebbero capito.
Mi avvicinai al ragazzino di colore, che ancora tremava. Tuttavia il sorriso non era scomparso dal suo viso.
-Grazie!- disse. E poi, inaspettatamente, mi abbracciò. Un abbraccio rapido, ma carico di affetto e riconoscenza.
Che forza che aveva quel ragazzo. Forza e speranza nel futuro.
Gli tesi la mano. –Piacere, mi chiamo Claudio.-
Lui me la strinse. Mi fece uno strano effetto vedere le nostre mani, così contrastanti nel colore, stringersi.
Ma fu una cosa fantastica.
Dietro il nostro aspetto un po’ diverso c’erano solo due ragazzi, con un cuore, dei sentimenti.
Con un futuro, dei progetti, degli amici, una famiglia, della voglia di vivere.
Capii che non esistevano vere differenze tra noi. E che chi si ferma all’apparenza non merita di provare la sensazione di pace e di complicità che provavo io in quel momento.
-Piacere di conoscerti, io mi chiamo Sefu-
Aveva un accento strano ma simpatico.
“Il razzismo è violenza, ignoranza e stupidità” pensavo mentre mi accingevo ad affrontare la vita con il mio nuovo amico Sefu e tutti gli altri abitanti della terra, indistintamente.



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